Intervista ad Adelindo di Roma di circa 10 anni fa:
- Come si è verificato il tuo primo incontro con le orchidee? Come ti sei appassionato?
La cosa è curiosa. Fin verso l’età di ventisei o ventisette anni non avevo mai mostrato interesse per le piante in genere. Un giorno (doveva essere il 1991) mi fu regalata una gardenia, la classica jasminoides ben lustrata con il lucidante fogliare. Quella pianta cambiò il mio approccio al mondo vegetale: il contrasto tra il verde intenso delle foglie e il bianco ceroso e profumato dei fiori mi colpì molto e incominciai a cercare libri sulle piante e a frequentare vivai. Naturalmente su quella pianta concentrai tutti i possibili errori del principiante: dal tenerla all’interno al concimarla a sproposito. Una volta fatta la mano con la gardenia, seguirono alcune camelie e poi un Cymbidium dismesso da un amico che non riusciva a farlo rifiorire. A quel punto la sfida alle orchidee era lanciata: ne avevo viste in Germania, nell’isola giardino di Mainau, in una piccola serretta da esposizione che ai miei occhi inesperti e ingenuamente entusiasti era apparsa come uno scrigno che custodiva gemme botaniche, piante impossibili, da veri esperti della coltivazione; in realtà erano solo ibridi comunissimi di Phalaenopsis, Paphiopedilum e Cattleya, ma questo lo scoprii solo tempo dopo. Intanto il Cymbidium avuto in dono rifiorì e lo seguirono la prima Phalaenopsis, un Oncidium e finalmente il primo acquisto serio, un presunto Angraecum sesquipedale. Presunto perché quella pianta mi svelò le buggerature di alcuni vivai non professionali: non era un sesquipedale ma un Veitchii, mi fu dato in un vasetto nascosto in un vaso più grande e ricoperto dal bark (me ne accorsi solo quando svasai la pianta, che deperiva a vista d’occhio), e per giunta in omaggio c’era una folta schiera di cocciniglia. Ma tutto ha un lato positivo: quell’Angraecum oggi è un esemplare pieno di vegetazioni e radici e ogni anno fiorisce generosamente.
- Da quanti anni?
V. sopra.
- Quante piante hai?
Poche: all’ultimo inventario 1.435, senza contare gli ibridi di Phalaenopsis (una sessantina) e quelli di Cymbidium (una decina). Qualcuno direbbe che è un numero folle per un hobbista, ma ogni volta che visito una mostra o sfoglio un catalogo trovo sempre qualcosa di nuovo che non può assolutamente mancare.
- Quali piante costituiscono il cuore della tua collezione?
Prevalgono Paphiopedilum e Cattleya, non ho grandi successi con Dendrobium e Bulbophyllum. Sto affrontando lotte aperte con Catasetum (l’inverno se non li innaffio seccano, se li bagno marciscono!) e Masdevallia (alcune vanno splendidamente, altre non vogliono saperne di radicare e finiscono per suicidarsi). Adesso con queste ultime sto attuando una coltivazione itinerante: fuori durante le mezze stagioni, sotto i bancali della serra in inverno e in estate.
- Attualmente quali preferisci? (genere, miniature, profumate, provenienza, ecc.)
Presto detto: Paphiopedilum, Laelia rupicole (adesso si chiamano Hoffmannseggella, ma sono certo che tra qualche giorno qualche altro tassonomo le chiamerà in altro modo), Sophronitis (mi sono procurato da poco anche la rara coccinea gialla), Neofinetia falcata, Cymbidium cinesi, soprattutto il goerengii, del quale ho anche alcuni cloni di particolare pregio.
- Come coltivi? (casa, serra, orchidario)
Ho percorso tutte le tappe: iniziai con la finestra della cucina, poi mi allargai al retro cucina. Quando la collezione crebbe e riempì il retro cucina traslocai in parrocchia, dove un amico parroco mi mise a disposizione uno scantinato: gli rifondevo il consumo di elettricità e coltivavo con lampade neon e un faro ai vapori di sodio. Finalmente, nel 2001, per colpa delle orchidee cambiai casa, optando per un appartamento con lastrico solare sovrastante: 96 mq di terrazzo che ospitano una serra in policarbonato (3 x 8 m) e una serretta estiva aperta, coperta con ombreggiante. Praticamente la serra sul tetto, come Nero Wolfe. Riflettendoci, non è l’unico punto in comune con il personaggio di Rex Stout (ma non faccio il detective!): amo la buona tavola (però lascio che cucinino gli altri!), sono uno scapolo convinto e un po’ orso, detesto viaggiare (preferisco far viaggiare le orchidee verso di me e, se ho voglia di vedere il mondo, salgo in serra e trovo fiori australiani e tailandesi, malgasci e costaricensi, del Borneo e del Brasile… senza i disagi del viaggio e i pernottamenti in situazioni improbabili, lasciando in pace la mia paura dell’aereo, senza temperature e tassi di umidità atroci, lontano da disavventure gastronomiche e linguistiche). Nel costruire la serra avevo pensato di tenere per me un gazebo, ma mi sono accorto che è utilissimo per proteggere le piante dal sole estivo e dalla pioggia invernale. E il balcone sottostante esposto a Nord è l’ideale per il soggiorno estivo delle Phalaenopsis. In poche parole: niente spazio per cene all’aperto, ma un terrazzo in cui la natura ha ripreso il sopravvento sul cemento. A proposito di Phalaenopsis: non le curo particolarmente e non ne compro, ma dopo averne uccise diverse ho scoperto che stanno molto meglio in casa che in serra. E in molte collezioni miste ho visto Phalaenopsis sofferenti: o hanno una serra adeguata alle loro esigenze, o fanno una misera fine.
- Usi l’illuminazione artificiale? Se sì, di che tipo? Ne sei soddisfatto?
L’usai nello scantinato parrocchiale, però bisogna ricordarsi di sostituire periodicamente i neon e il faro ai vapori di sodio falsa i colori. Quando una pianta fioriva me la portavo in casa. Oggi la frontiera della luce artificiale sono i led, ma per il momento non ne ho esperienza.
- Solitamente gli appassionati trovano soluzioni a volte geniali per risolvere i vari problemi di coltivazione casalinga. Hai qualche idea da segnalare?
Provo un’ammirazione ai limiti dell’invidia per chi sa farsi le cose da sé. Le mie attitudini pratiche rasentano miseramente lo zero e quindi sul versante tecnico devo affidarmi alle capacità altrui. Tra le mie esperienze di coltivazione ho però notato alcuni veri e netti salti di qualità. Elenco:
l’eliminazione del riscaldamento ad aria calda in serra. Abbatteva l’umidità e le piante soffrivano terribilmente, la caldaia andava in blocco continuamente… Oggi riscaldo con uno o due radiatori elettrici (vivendo a Roma uno è sufficiente; il secondo serve una decina di giorni all’anno): quello che spendo in bolletta lo risparmio in gasolio, interventi del tecnico, fatica di riempire taniche maleodoranti e portarle fino al lastrico solare…
L’installazione di un sistema di nebulizzazione in serra.
Il passaggio a un composto completamente inorganico per i Paphiopedilum (salvo insigne e ibridi complessi a fiore grande, che vanno bene anche in bark): per quanto rinvasassi spesso, trovavo sempre radici marce, ora le radici avvolgono l’interno del vaso, le piante fioriscono e vegetano allegramente e io non devo più rinvasare oltre 500 piante ogni due anni. Sto sperimentando con buon successo il composto inorganico anche con qualche Oncidium, è tassativo per le Hoffmannseggella, arricchito con un po’ di humus di lombrico va molto bene per i Cymbidium cinesi.
La concimazione continua a basso dosaggio e la somministrazione di magnesio in estate. Il rinvaso di tutti i nuovi acquisti. Così verifico lo stato delle radici, uniformo il composto per evitare di impazzire con le innaffiature, elimino le lumache, che non mancano quasi
mai.
Il soggiorno all’esterno per le vandacee, Encyclia, Brassia, Laelia, Paphiopedilum… Ci sono piante che, a fine marzo, sembrano voler uscire dalla serra a tutti i costi, anche camminando sulle radici.
- E quali errori?
Ogni anno a metà autunno e/o a fine inverno ho a che fare con attacchi fungini. Il Fusarium è terribile: se non ci si accorge il primo giorno, il secondo l’infezione già galoppa e il terzo si cominciano a buttare le piante. Devo trovare il modo di creare in serra un ambiente più salubre. Chi coltiva in casa deve stare attento al passaggio alla serra: tutti i parassiti animali e vegetali elencati nei libri, al coltivatore casalingo sembrano creature mitologiche, ma si materializzano d’incanto in serra.
Non porterò mai più una pianta con cocciniglia in serra: dopo un errore simile ho impiegato due anni per estirpare l’immonda bestiaccia.
Non rischierò mai più di saggiare i limiti delle piante confidando su tabelle climatiche che elencano minime vicine allo 0 nei luoghi di origine. Sotto i 5° è saggio ricoverare anche le piante più resistenti, se non si vuole rischiare l’irreparabile.
Tra gli appassionati di orchidee non è ancora diffuso a sufficienza lo scambio di piante (cosa che i coltivatori di altre piante praticano abitualmente). Ma è un grosso errore pensare di tenere solo per sé un clone raro: io ho perso piante alle quali tenevo molto per motivi incredibili (la goccia d’acqua di condensa che dal tetto cadeva nel cuore della pianta): se avessi donato una divisione a un amico, ne avrei riavuto un pezzetto a stretto giro. Condividere una pianta di pregio può essere una sorta di polizza di assicurazione.
- La coltivazione e quindi la passione per le orchidee hanno influito sul rapporto con te stesso e con chi ti circonda? Se sì, in che modo?
Bella domanda e la risposta è senz’altro positiva. Anche qui preferisco elencare per maggiore chiarezza:
Capire che la pianta ha bisogno di un habitat significa immergersi con maggiore consapevolezza nel mondo della natura di cui facciamo parte. L’umidità relativa in casa è buona per le piante, ma anche per le persone; la ventilazione, l’esposizione al sole, la protezione dal freddo e dal caldo valgono per loro come per noi. Curiamo le piante e intanto conosciamo meglio le nostre personali esigenze in rapporto al corpo e ai suoi bisogni. Chi ama le piante non avvelena sé stesso e il mondo in cui vive.
Le orchidee insegnano la pazienza. Chi vuole tutto e subito può seminare fagioli! Per portare una piantina da seme al fiore ci vogliono anni: ho in serra piante delle quali, dopo 10 anni e più, non ho ancora visto un fiore, ma so che sarà un giorno speciale quello in cui vedrò spuntare uno stelo dal Paphiopedilum sanderianum che comprai nel 1997 in un vivaio tedesco che oggi non esiste più. Pag.ai 40 marchi per due piantine di 10 cm (da foglia a foglia). Oggi una di quelle piante ha una seconda vegetazione. Sono ancora in un solo vaso, ma ora è un vaso del 14, la taglia delle piante è promettente e ho già individuato una bottiglia da stappare quando sarà il momento.
A ciascuno la vita riserva giorni di gelo. Facendone l’esperienza (nel 1999 dovetti affrontare l’agonia di mio padre per un male incurabile) notai che non solo io, ma anche mia madre ci rivolgevamo piuttosto spesso all’angolo delle orchidee. Le piante sono compagne fedeli per persone che non amano effusioni eclatanti: stanno vicino con discrezione e in silenzio, ma un bocciolo che si apre in certi momenti ha la delicatezza di una carezza e di un sorriso.
Per leggere libri e riviste ho rispolverato il mio inglese arrugginito, che avevo lasciato senza rimpianti dopo la quinta ginnasiale. E per capire di più della concimazione ho ripreso in mano persino il libro di chimica, conservato insieme agli altri libri di materie scientifiche mai amate solo perché sono uno che non butta mai niente. Forse, se avessi coltivato orchidee già al tempo del liceo, la mia pagella nelle materie scientifiche non si sarebbe affidata solo alla misericordia degli insegnanti.
Le orchidee creano legami trasversali con persone diversissime per età, interessi, formazione, idee… che altrimenti non incontreremmo mai. Qualche mese fa scrivevo a un tedesco che vive in Cina per avere notizie sui tempi di maturazione dei semi di Cymbidium, un vescovo colombiano mi informa sul suo progetto di avviare un vivaio dove i ragazzi poveri possano crearsi un futuro, durante le vacanze trovo sempre una riunione del gruppo locale di orchidee alla quale partecipare, tra le orchidee ho fatto amicizia con un eccellente dentista, che mi ha risolto non pochi problemi che trascinavo da tempo…
Le orchidee sono diventate un calendario integrativo. La Rhyncholaelia glauca e la Cattleya loddigesii mi dicono che l’inverno volge al termine, la Leptotes bicolor viene sempre con me alla mostra di Monte Porzio Catone ma quei dispettosi di Paphiopedilum armeniacum e micranthum si aprono sempre una settimana dopo, la Cattleya mossiae fiorisce col Giro d’Italia (l’anno scorso ha festeggiato con me lo scudetto del Milan), le Neofinetia invece attendono perfidamente agosto per fiorire, proprio quando io vorrei andare in montagna, la “Signora della notte” (Brassavola nodosa) riempie di profumo le sere di fine estate e la Blc Languedoc mi dice che arriva il tempo delle castagne; quando si aprono i boccioli della Laelia gouldiana il Natale è alle porte… Potrei ripercorrere il calendario con tante altre piante.
Aggiungo un pensiero finale che non vorrei suonasse lugubre. L’ultimo numero della rivista tedesca “Die Orchidee” dedica un articolo a un progetto di censimento e salvaguardia delle collezioni botaniche.
Quell’articolo ha risposto a una domanda che mi ero posto più volte, dopo aver visto morire collezioni bellissime a breve distanza dal loro padrone. Forse è l’inevitabile conseguenza del legame tra piante e coltivatore, ma vorrei che le cose andassero diversamente. A 46 anni può sembrare presto per pensarci, ma poi si rischia di fare tardi e non sono mai stato superstizioso. Quando questo misterioso e bellissimo viaggio della vita punterà verso altri lidi, le mie piante ripercorreranno a ritroso il viaggio che ho fatto io. Stante la situazione generalmente penosa degli orti botanici italiani, vorrei dividere i doppioni tra gli amici e mandare il grosso della collezione all’orto botanico della mia città natale, in Svizzera. Un segno di vita perché la storia continui.